Dopo 7 anni dalla pubblicazione delle linee guida del 2014, a giugno 2021 Confindustria ha aggiornato le Linee Guida per la costruzione dei Modelli di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231.
Mediante il predetto documento, Confindustria si propone di “offrire alle imprese che abbiano scelto di adottare un modello di organizzazione e gestione una serie di indicazioni e misure, essenzialmente tratte dalla pratica aziendale, ritenute in astratto idonee a rispondere alle esigenze delineate dal decreto 231.”
Di seguito si indicano e si riassumono le principali indicazioni fornite dall’associazione di categoria.
I. INDIVIDUAZIONE DEI RISCHI E DEI PROTOCOLLI
Le fasi principali in cui il sistema di prevenzione dei rischi 231 dovrebbe articolarsi sono le seguenti:
a) l’identificazione dei rischi potenziali: ossia l’analisi del contesto aziendale per individuare in quali aree o settori di attività e secondo quali modalità si potrebbero astrattamente verificare eventi pregiudizievoli;
b) la progettazione del sistema di controllo (cd. “protocolli” per la programmazione della formazione e attuazione delle decisioni dell’ente), ossia la valutazione del sistema esistente all’interno dell’ente per la prevenzione dei reati ed il suo eventuale adeguamento, in termini di capacità di contrastare efficacemente, cioè ridurre ad un livello accettabile, i rischi identificati. A tal proposito, si precisa che per livello accettabile deve intendersi come sistema di prevenzione che può essere aggirato se non fraudolentemente,
c) le componenti sopra descritte devono integrarsi organicamente in un’architettura del sistema che rispetti una serie di principi di controllo;
d) whistleblowing: le imprese dotate del modello organizzativo 231 devono disciplinare le modalità per effettuare le segnalazioni e le modalità di gestione delle stesse, distinguendo fasi e responsabilità, eventualmente con una procedura ad hoc.
I passi operativi che l’ente dovrà compiere per attivare un sistema di gestione dei rischi coerente con i requisiti imposti dal decreto 231 sono i seguenti:
1) Il compimento di una revisione periodica esaustiva della realtà aziendale, con l’obiettivo di individuare le aree che risultano interessate dal potenziale compimento di taluno dei reati previsti dalla normativa;
2) l’analisi dei potenziali rischi che deve aver riguardo alle possibili modalità attuative dei reati nelle diverse aree aziendali, individuate secondo il processo di cui al punto precedente;
3) valutazione del sistema di controlli preventivi eventualmente esistente e con il suo adeguamento quando ciò si riveli necessario, ovvero con la sua costruzione quando l’ente ne sia sprovvisto;
II. CODICE ETICO O DI COMPORTAMENTO E SISTEMA DISCIPLINARE
a) Il Codice Etico
L’adozione di principi etici rilevanti ai fini della prevenzione dei reati 231 costituisce un elemento essenziale del sistema di controllo preventivo. Tali principi possono essere inseriti in un codice etico o di comportamento.
Tali codici mirano a raccomandare, promuovere o vietare determinati comportamenti, indipendentemente da quanto previsto a livello normativo, e possono prevedere sanzioni proporzionate alla gravità delle eventuali infrazioni commesse. I codici etici sono documenti voluti ed approvati dal massimo vertice dell’ente. Il Codice etico dovrebbe focalizzarsi sui comportamenti rilevanti ai fini del decreto 231.
b) Il sistema disciplinare
Un punto qualificante nella costruzione del modello è costituito dalla previsione di un adeguato sistema sanzionatorio per la violazione delle norme del Codice etico, nonché delle procedure previste dal modello. Infatti, per valersi dell’efficacia esimente del modello, l’ente deve assicurarsi che questo sia adottato, ma anche efficacemente attuato.
Il modello dovrebbe, cioè, individuare nel dettaglio le misure disciplinari cui si espone chiunque non osservi le misure organizzative adottate, ricollegando a ciascuna violazione o gruppo di violazioni le sanzioni applicabili, in una prospettiva di gravità crescente.
III. L’ORGANISMO DI VIGILANZA
L’organismo di vigilanza, deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza del modello e di curarne l’aggiornamento, deve svolgere le seguenti attività:
a) vigilare sull’effettività del modello, cioè sulla coerenza tra i comportamenti concreti e il modello istituito;
b) esaminare l’adeguatezza del modello, ossia della sua reale capacità di prevenire i comportamenti vietati;
c) analizzare il mantenimento nel tempo dei requisiti di solidità e funzionalità del modello;
d) curare il necessario aggiornamento in senso dinamico del modello, nell’ipotesi in cui le analisi operate rendano necessario effettuare correzioni ed adeguamenti.
Con la decisione n.7132/2021 del 15.03.2021 l’Arbitrato Bancario Finanziario (Collegio di Roma) ha riconosciuto ad un risparmiatore, assistito dall’avvocato Francesco Giancristofaro dello Studio Legale La Morgia, il risarcimento del danno (in un importo pari al capitale investito) in caso di buoni postali fruttiferi prescritti, ma emessi dalle Poste Italiane in violazione degli obblighi informativi e di trasparenza nonché in ragione della mancata consegna del foglio informativo analitico.
I ricorrenti credevano che fossero buoni postali ordinari, di quelli che solitamente durano 20 o 30 anni, investimenti che le famiglie fanno per lasciare qualcosa a figli e nipoti. Invece, al momento della riscossione, si sentirono dire che erano prescritti.
A quel punto si è reso necessario ricorrere all’Arbitro bancario finanziario, che è un organismo di risoluzione stragiudiziale delle controversie presso la Banca d'Italia, per contestare il diniego al rimborso dei buoni postali per prescrizione.
Ebbene l’Abf ha stabilito che, laddove sia mancata la consegna del foglio informativo analitico Poste Italiane non ha correttamente adempiuto al proprio obbligo informativo e quindi pur in presenza di buoni prescritti deve risarcire il danno con una somma pari a quella investita.
A seguito della suddetta decisione, Poste Italiane ha adempiuto tempestivamente al pagamento di quanto stabilito dall’ABF.
La Corte di Cassazione, con una recente sentenza n. 20867/2021, torna su un tema spinoso e ricorrente, ossia quello della configurabilità del concorso nel reato di bancarotta per i componenti del Collegio Sindacale conseguente a omesso controllo di questi ultimi.
Nella suddetta sentenza, la Suprema Corte richiama un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, ribadendo che la responsabilità dei sindaci, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, sussiste solo qualora emergano puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, in forza dei quali l'omissione del potere di controllo - e, pertanto l'inadempimento dei poteri doveri di vigilanza il cui esercizio sarebbe valso ad impedire le condotte distrattive degli amministratori - esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di dolosa partecipazione, sia pure nella forma del dolo eventuale, per consapevole volontà di agire anche a costo di far derivare dall'omesso controllo la commissione di illiceità da parte degli amministratori.
Si aggiunge, altresì, che la responsabilità dei sindaci non può desumersi da una mera loro posizione di garanzia e dal mancato esercizio dei relativi doveri di controllo, ma postula l'esistenza di elementi, dotati di adeguato e necessario spessore indiziario, sintomatici della partecipazione, sia pur libera e portata "in qualsiasi modo", dei sindaci stessi all'attività degli amministratori ovvero dell'effettiva incidenza causale dell'omesso esercizio dei doveri di controllo rispetto alla commissione del reato di bancarotta fraudolenta da parte di costoro. Specifica la Corte di Cassazione, infine, che un'eventuale responsabilità dei sindaci, infatti, deve necessariamente essere valutata alla luce di un giudizio controfattuale.
In altri termini, il giudice deve valutare se qualora i sindaci avessero adempiuto pienamente ai loro compiti di controllo, invece omessi, la condotta distrattiva si sarebbe comunque verificata oppure no.
Secondo la suddetta disposizione, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto (440-445, 455 – 459), con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a euro 2.065,00, il soggetto che nell’esercizio di un’attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile per origine, provenienza, qualità o quantità diversa da quella pattuita.
Nel delitto di frode in commercio, che punisce la consegna all’acquirente di un aliud pro alioo di una cosa difforme da quella dichiarata, il bene giuridico tutelato è da rinvenire nella lealtà e nella correttezza degli scambi commerciali e non la liceità del commercio del bene alimentare destinato alla vendita, in cui deve ravvisarsi, come sin dagli anni ‘80 la giurisprudenza sostiene, la “pubblica funzione dello stato di assicurare l’onesto svolgimento del commercio e non gli interessi patrimoniali dei singoli acquirenti”, tanto che è irrilevante il fatto che l'acquirente non abbia ricevuto un danno economico in conseguenza della consegna del bene differente e che il prodotto consegnato non sia alterato o nocivo alla salute del consumatore, poiché il reato è integrato dalla semplice messa in vendita dell’aliud pro alio.
Quanto all’elemento soggettivo, la norma di cui all’art. 515 c.p. punisce la condotta sulla base del semplice dolo generico, per la cui integrazione non è necessario che l’agente abbia posto in essere l’atto criminoso con l’intento di ottenere un profitto, ma è sufficiente che sussista, in capo al soggetto che pone in essere la condotta, la consapevolezza di cedere, nell'esercizio del commercio, una cosa mobile che, per origine, provenienza, qualità o quantità, sia difforme rispetto a quella dichiarata come posta in vendita.
Tuttavia, l’assenza dello specifico intento di ottenere un profitto da parte dell’agente nulla ha a che vedere con la normativa prevista dal D.Lgs. 231/2001, in cui il vantaggio, identificato come profitto materiale ottenuto grazie alla commissione del reato, rappresenta uno dei requisiti richiesti per la configurabilità della responsabilità della persona giuridica.
Infatti, come ormai pacifico ed ampiamente sostenuto dalla giurisprudenza, il vantaggio, in termini di criterio di imputazione oggettiva, sussiste anche quando la condotta del soggetto agente abbia consentito all’ente di ottenere un risparmio di spesa, come ad esempio la sola riduzione dei tempi di lavorazione, il risparmio sui costi di consulenza, sulle attività di formazione o di informazione del personale, o di massimizzazione della produzione, senza che l’esiguità del vantaggio o la scarsa consistenza dell’interesse perseguito possano condurre all’esclusione della responsabilità dell’ente.
Quanto al soggetto attivo del reato, la cui punibilità può avere effetti diretti sulla applicabilità della normativa exD.Lgs. 231/2001, esso può essere individuato, secondo la giurisprudenza più risalente, in chiunque agisca nell'esercizio di un'attività commerciale o in uno spaccio aperto al pubblico, tra cui, non soltanto il titolare della ditta, ma anche i dipendenti, il rappresentante o il semplice mandatario, ed anche il socio che rappresenti la ditta e che non abbia ingerenza nella consegna della merce, sempre che abbia concorso in qualsiasi modo nel fatto delittuoso.
Pertanto, in capo al titolare dell’attività commerciale, intesa anche come azienda di ridotte dimensioni, grava l'obbligo di impartire ai propri dipendenti precise disposizioni di leale e scrupoloso comportamento commerciale e di vigilare sull'osservanza di tali disposizioni, altrimenti potrebbe configurarsi il reato di cui all'art. 515 c.p. sia allorquando alla condotta omissiva si accompagni la consapevolezza che da essa possano scaturire gli eventi tipici del reato, sia quando si sia agito accettando il rischio che tali eventi si verifichino.
Tale impostazione giuridica, tuttavia, deve necessariamente cambiare prospettiva nelle frequentissime ipotesi in cui il reato di frode in commercio sia commesso in realtà strutturate sia dal punto di vista dimensionale, sia in quello organizzativo.
Nelle aziende di notevoli dimensioni, gli amministratori o i legali rappresentanti possono essere ritenuti responsabili del delitto in esame, qualora manchi una assegnazione di specifici compiti a determinati soggetti, essendo tenuti a fa osservare tutte le disposizioni imperative concernenti gli aspetti dell’attività aziendale.
Pertanto, nelle aziende maggiori, la responsabilità dei singoli preposti è configurabile, a condizione che sia stata prevista una suddivisione di attribuzioni con assegnazione di compiti esclusivamente personali a determinati soggetti. Tuttavia, affinché possa ritenersi sussistente tale responsabilità è necessario che la ripartizione delle funzioni risulti in modo non equivoco da norme interne e risponda ad esigenze effettive, concrete e costanti dell'azienda. Dalla predetta considerazione, emerge che l’effettiva delega di funzioni deve essere provata affinché l’amministratore possa essere ritenuto non responsabile, come ad esempio è avvenuto in un’ipotesi in cui si è ritenuto configurabile il reato previsto dall’art. 515 c.p. in capo ad un’imputata, legale rappresentante di una società di commercio all’ingrosso di bevande con un fatturato di oltre 30.000.000,00 di euro e con oltre 100 dipendenti, poiché non è stato possibile ricostruire l’effettiva delega di funzioni al preposto,.
Quanto all’elemento oggettivo, dalla lettura della norma, si evince che il reato in questione può realizzarsi sia nel caso in cui l’oggetto della consegna all’acquirente sia una cosa mobile sostanzialmente diversa da quella pattuita, ipotesi concettualmente ben definita nella disciplina civilistica mediante la locuzione verbale aliud pro alio, sia nel caso in cui l’oggetto materiale venduto, nell’ipotesi del reato consumato, non abbia le caratteristiche che ne hanno reso possibile la individuazione come tale in sede di trattative da parte del compratore o che, comunque, siano state, anche in termini impliciti, prospettate dal venditore al momento della offerta in vendita.
A tal proposito, ad esempio, la diversità "per origine" riguarda il luogo geografico di produzione e diviene senz'altro decisivo nell'accordo di vendita nel caso in cui il consumatore possa attribuire ad esso ragioni di particolare apprezzamento per le qualità o la bontà del prodotto.
Facendo riferimento alla casistica giurisprudenziale, si è ritenuto che possa ritenersi integrato il reato di cui all’art. 515 c.p. nel caso in cui sia stato venduto un tipo di prosciutto diverso da quello indicato nell'etichetta e protetto da denominazione di origine, ossia la vendita di confezioni riportanti sull'etichetta le denominazioni "Prosciutto di Parma" e "Prosciutto San Daniele", sebbene le attività di affettamento del prodotto fossero avvenute con modalità diverse da quelle previste nel Disciplinare D.O.P.; nei casi, soventi sottoposti all’attenzione della magistratura, in cui sia stata in qualche modo contraffatta l'indicazione della data di scadenza mediante falsificazione o soppressione; la vendita, da parte di un’industria casearia che ha venduto latte fresco pastorizzato un prodotto privo delle predette caratteristiche; la commercializzazione di beni di largo consumo le cui caratteristiche di provenienza siano differenti rispetto a quelle indicate nei relativi messaggi pubblicitari, in quanto tali messaggi devono considerarsi integrativi di ciascuna proposta di vendita. Nel caso di specie, i giudici hanno condannato la vendita di carni destinate all'alimentazione umana dichiarate nella pubblicità, contrariamente al vero, come provenienti esclusivamente da allevamenti siti in territorio italiano e da considerare quindi ufficialmente esenti da encefalopatia spongiforme bovina;la vendita di mozzarella prodotta con latte bufalino surgelato ma indicata come mozzarella prodotta con latte di "bufala campana D.O.P.; la commercializzazione di bottiglie d'olio extravergine di oliva con etichetta recante una mendace indicazione dell'azienda che effettuato la produzione e l'imbottigliamento; la commercializzazione di vino da tavola recante l’indicazione “IGT Toscano”, ma privo delle caratteristiche richieste dalla predetta tipologia di vino.
La giurisprudenza ritiene ammissibile anche la forma tentata del reato previsto e punito dall’art. 515 c.p., qualora manchi la consegna materiale della merce all’accipiens, ma sia accertata la destinazione alla vendita del prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite, tale potendosi qualificare anche la detenzione in magazzino dell’impresa produttrice di merce con false indicazioni di provenienza destinata non al consumatore finale, bensì ad utilizzatori commerciali intermedi. In siffatta circostanza, i giudici hanno chiarito che la fattispecie di cui all'art. 515 c.p. è posta a tutela non solo dei consumatori, ma altresì degli stessi commercianti.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 34475 di dicembre 2020, estende la responsabilità penale, in caso di reati di natura tributaria, a tutti gli amministratori della società.
Si pensi al caso molto frequente in cui una S.r.l. sia amministrata da più soggetti, con ripartizione interna di competenze, e sia accertato l'omesso versamento di ritenute certificate o dell'IVA (10 bis o 10 ter del D.Lgs. 74/2000), ci si chiede chi risponda in siffatta ipotesi.
Ebbene, la Cassazione ha stabilito che tutti gli amministratori sono penalmente responsabili, indipendentemente dai compiti di ciascuno, poichè le incombenze fiscali sono da ritenersi atto di ordinaria amministrazione e, pertanto, possono essere svolte da chiunque ed in modo autonomo, a prescindere dalle singole funzioni.
Inoltre, precisa la Corte, i beni di proprietà di tutti gli amministratori, nei limiti ovviamente di quanto è stato il profitto del reato, possono essere legittimamente sottoposti a confisca per equivalente, qualora non siano indicati i beni della società sui quali poter eseguire la confisca diretta.
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